BIBLIOGRAFIA / 2019 MediaAngels

Mediangels di Gabriele Perretta

Chi è abituato a concepire Giovanni Pulze come un pittore dalla pennellata rapida come un colpo di sciabola, raffinato ed elegante anche nella rappresentazione del paesaggio metropolitano, chi pensa ad un Pulze newyorkese rimarrà probabilmente sorpreso da questo suo nuovo ciclo sugli Angeli e la diffusione degli smartphone.
Ma se si tiene presente quella che fu la formazione prima del nostro pittore, la sua esperienza mediale, un più scoperto e dichiarato amore per il documento meta-fotografico, allora si comprenderà come queste tavole sui messaggeri rappresentino una nuova metamorfosi dell’artista neo-mediale o cross-mediale. In questo caso sarà particolarmente facile sorprendere un’atmosfera “iperattuale”, rintracciabile negli interpreti più provocatori del “post-pop”, del “narrative” e soprattutto dei “simulazionisti”: proprio questo è il tono caro ad un Giovanni Pulze, ispirato ad un sentimento umano soffuso di urbanità e di collettivismo, attento ai fatti della vita comunicativa di tutti i giorni, non per sorprendere l’orpello, il grande apparente effetto, ma per coglierne il dato più segreto e sottile.

Giovanni Pulze intraprende la sua vicenda chiara e rettilinea di pittore fra il nono e il decimo del ‘900, in un momento in cui, mentre si estranea dalla vita artistica e sociale dell’Italia l’espressionismo, trionfano gli aspetti più deteriori e didascalici del simbolismo e dell’astrattismo, le perigliose svenevolezze di un decadentismo che mina ed avvilisce in cattiva letteratura la pur originale e vitale visione del concettuale. Giovanni Pulze non ha scritto la Metropoli o la post-metropoli di G. Simmel, la scorge nell’esaurirsi della visione che comunque non oltrepassa. La sua pittura si esaurisce con l’esaurirsi della visione dell’immagine metropolitana e rimane sotto il suo primato. G. P. dipinge, infatti, ciò “che vede”, ma non riesce a negare l’evidenza di quello che vede. Se si fosse distolto dall’omaggio all’icasticità avrebbe invece dipinto senza vedere. In un’astrazione. Perciò la sua esperienza rimane mediale. Mediale, raccolta di formule iconografiche, rilegatura della realtà.
Si tratta ancora – nonostante l’alto ingegno lo conduca alle soglie dell’agorà contemporaneo – della cover della cross-medialità. Insomma, nonostante l’esperienza in cui si trova, Giovanni considera ancora la pittura nei termini del plurale e non come partitura della singolarità, che prescinde dal tutto e non necessita di unificazione. E parla ancora di forma universale proprio quando si trova al colmo dell’inganno delle immagini. Ma come esprimere l’inganno stesso delle immagini, senza porre almeno un’immagine che non inganni? Senza sottomettersi al principio dell’ineffabile fotografico? Qui la simulazione si interrompe. E il suo pregio è proprio di non decidere, di lasciare qualcosa in sospeso senza avvalersi di un ricorso al feticcio. Pulze propone qualcosa – che resta pittorico – ma in termini di visione e non di risposta. Il nodo di cui parla Pulze – come il nodo della topologia comunicativa metropolitana dei mediali – rientra ancora in una concezione ibrida dell’immagine e quindi pluralistica del messaggero mediale. La stessa idea che la Fotografia evidenzia nel costituirsi delle cosiddette masse artificiali del Photoshop, o di app che manipolano l’icona.

Nel nuovo ciclo Mediangels di Pulze mi pare di cogliere una tesi di portata insidiosa per le conseguenze che comporta: non c’è topologia dell’immagine e dell’oggetto immagine. L’oggetto della pittura mediale è intopologico. Pulze spinge verso l’universalizzazione della visione, un prescindere dalla particolarità in nome dell’ineffabile. La topologia metropolitana propone l’assolutismo della visione nell’abolizione della particolarità. Che cos’è questa regolarità banale - costituita da forme che restano creative se indeformate con continuità - se non una sorta di metageometria idealistica? Una forma di questo tipo non è altro che la rappresentazione geometrica dell’idea universale platonica e di come possa pervadere le infinite idee particolari, senza mutare nella sua essenza. Una sorta di segno del segno, cioè di fantasma del fantasma. È la struttura stessa di quello che Pulze chiama messaggero iconico, cioè un meta-messaggero. L’ipotesi della continuità peraltro è un elusione del tempo: la folla è ovunque, al supermercato, in banca, all’ospedale, a lezione, in vacanza, ovunque ed in ogni momento, d’estate e d’inverno la folla assale l’immagine, circonda, copre. C’è sempre.

Sono sempre più rari i luoghi dove non c’è folla di smartphone, messaggeri e simulacri; dove non si viene presi d’assalto dalle rese pittoriche dei mediangels. Eppure l’uomo soffre di solitudine, di una solitudine angosciosa e intollerabile che ancora di più lo spaventa, sebbene non sia mai solo in mezzo alla smartphonite. È invece finalmente giunto il momento di renderci conto di un fatto: viviamo in una società fallibilistica nella quale, se da una parte si tura una falla, si corregge uno squilibrio, subito un altro si manifesta poco più in là.
Attraverso la smartphonite dobbiamo amministrare l’instabile, sapendo che è il bene più prezioso che possediamo. Il nostro stile, la non definibilità mediale, procedendo attraverso l’incertezza, senza rifarci per trovare soluzioni che si rivelano oppressive, al passato. Il terrorismo digitale cos’è, se non una forma di guerra atomizzata, che fa le sue vittime a una una, e mantiene un conflitto e un’organizzazione comunicativa? Chiudere un occhio, magari per troppa luce, equivale a fare dell’icastico una questione di omertà. Ecco la virtù del cittadino cross-mediale, che nell’amministrare l’immagine quale patrimonio da distribuire, sempre troppo tardi si accorge, come Polifemo, che aveva a che fare con Nessuno. Quel Nessuno che dei remi fece ali al folle volo. Il tono di un incontro: come nel leggere questi mediangels esiste un tono e un incontro. Solamente con la cifra della pittura questa voce giunge a tono. E non si sfuma. Tanto più che in materia di medialità la voce non può prestabilire la giusta causa. Nemmeno puntando a cogliere nel segno del silenzio. Errava, dunque, l’oratore cittadino che per cogliere nel segno, mentre declamava tra la folla, si faceva accompagnare da uno smartphone che gli suggeriva i tempi di attrazione e distrazione per l’innalzamento del capo.
La Testa china tiene il passo con la verità? L’espressione è l’arte di quel che accade con Nessuno? Lo sguardo pittorico, infatti, una volta rivolto e fissato su una scena urbana, dimessi infine i panni di scienziato ed umanizzatore del tutto, trova nella capacità narrativa e poetica la porta d’accesso per un modo di raccontare il mondo attraversando i grandi dilemmi dell’umanità, quali lo schermo, il caso o una possibile ambiguità quotidiana. Nel pensare pittorico si svela un ri-pensare che, facendosi mitico, non offende e non annienta né l’oggetto pensato né il pensante poiché, come sempre, all’ “inizio era la favola” ma, in fondo, anche alla fine “era una favola”. Sapere, infatti, d’essere una parte di una trama narrante che si perpetuerà attraverso altre immagini di altri smartphone, pur essendo una consapevolezza che atterrisce, è garanzia piena che si sta rispettando lo sguardo mediale contemporaneo.

Questo è infatti il sitz im leben del mito per Pulze, e del mito in generale: conoscere e non comprendere mai pienamente quel che si sta cercando di scrutare. Leggendo d’un sol fiato questa bella raccolta, si colgono in breve la profondità stessa dell’ingegno stilistico del nostro Pulze e la sua personale elaborazione del pensare e raccontare i Mediangels. Quel che resta al lettore attento di queste pitture è il piacere di aver assistito all’“incarnarsi” del mito attraverso i mille volti della tecnologia visiva, che più si fa “favola”, più si presta al fruitore, il quale è chiamato a non dimenticare mai che è l’immagine al servizio dell’umano e quasi mai il suo contrario.