BIBLIOGRAFIA / 2022 EUROPEAN ANGELS

LA “POTENZA” DI “ANGELO”
Testi di Lucia Serena Rossi, Giorgio Derossi, Antonio Cattaruzza, Giulia Parovel

CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA LUSSEMBURGO

Si è subito colpiti, dinanzi ai dipinti di Giovanni Pulze, da una drastica contrapposizione drammaticamente accentuata con vivaci e quasi provocatorie coloriture: quella fra piazze e vie di grandi città sovrailluminate, sovraffollate e sovramovimentate – da un lato – e il flebile baluginare di un personaggio umbratile, solitario e quasi statico – dall’altro. Ciò che colpisce è la totale estraneità di questo personaggio rispetto all’ambiente in cui si trova – sembrerebbe – come per caso. Ed è un’impressione che diventa ancor più acuta non appena si nota che gli spuntano dal dorso due strani moncherini bianchi o grigi simili ad ali, contrassegno tipico degli angeli, come lo è anche – nell’angelologia delle religioni aniconiche – il nascondimento del volto dietro uno spazio vuoto. Non par dubbio che si tratti di un angelo, dimesso ma non caduto, giacchè non sembra affatto un temibile démone.
Ma a quale tipologia di angeli egli appartiene, fra le tante rintracciabili nelle molteplici tradizioni religiose? Certo non è un Serafino, che ha sei ali, con due delle quali si copre la faccia, con altre due i piedi, mentre usa le due rimanenti per volare; e non è un Cherubino, posto, con una spada fiammeggiante, a guardia del Giardino dell’Eden, da cui l’Uomo fu originariamente espulso; e non è neppure Michael, custode del popolo d’Israele, né uno dei quattro o dei sette “Arcangeli” o “Angeli della Faccia”: Gabriel, Michael, Rafael, Uriel, Raguel, Sariel, Geremiel. Sembra chiaro che l’Angelo di Pulze non si lascia catalogare né nominare e che si presenta come un semplice, anonimo, “angelo”. Non tanto un membro della “Corte divina” quanto e soprattutto – secondo l’etimologia greca che traduce quella ebraica – il “Messo”, l’”Inviato”, che porta un messaggio, come quello – emblematico – dell’Annunciazione: “Angelus Domini qui nuntiavit Mariae”.
Ma il nostro angelo, e il suo eventuale messaggio, non hanno certo lo splendore che emana l’Annunciazione nel racconto neotestamentario. L’eventuale “notizia” di cui esso è portatore non sembra “buona” ma piuttosto inquietante, come lo è lui, personaggio “misto”, più umano che divino; non ci appare – come nelle varie tradizioni religiose – quale rappresentante di una “Potenza” trascendente, bensì, al contrario, di un’”Impotenza”, non essendo neppure capace di attirare gli sguardi delle persone circostanti: egli appare, ma non è appariscente; è, nella sua veste incolore, quasi invisibile. Tuttavia è proprio questo contrassegno iconico a costituire l’essenza dell’angelo: far vedere, o meglio intravedere, l’invisibile nel visibile. E ha una valenza peculiare, in quanto “accomuna” l’angelo rappresentato a chi osserva la “rappresentazione” e a chi l’ha creata.
Ci sono in effetti diversi livelli di “osservazione” dell’invisibile-visibile: un’osservazione che coglie una certa “stranezza” del personaggio, la quale però non lo differenzia sostanzialmente dagli altri se non per il suo aspetto singolare; con un’osservazione più attenta si può cogliere invece una differenza sostanziale, ossia la natura angelica del personaggio; e con un’osservazione ancor più approfondita può risultare e risaltare la sua funzione angelica. A quest’ultimo livello di osservazione non può non fare riscontro un corrispondente livello di “creazione” da parte dell’artista. Ciò che fa entrare nell’ambito del “Sacro” la figura dell’angelo – e insieme con essa il suo creatore umano, appunto l’artista – è non tanto la sua natura necessariamente divina quanto la sua funzione, che è la sua stessa “ragion d’essere”. Le funzioni sono molte (annunciare, custodire, ecc.) e tutte manifestazioni della “Potenza” divina (“nomen est officii, non naturae”). Mentre la natura distingue (anche se non separa) il divino e l’umano, il trascendente e l’immanente (cielo e terra), le funzioni li collegano sino a farli compenetrare quasi in maniera “sacramentale”.
Rappresentare, o meglio presentare, tale fusione quasi-sacramentale nella funzione angelica è dunque un atto di “creazione” non solo artistica ma anche “religiosa” in quanto generatore di un’unione che è comunione: è questa doppia valenza dell’atto creativo a trasformare la “rappresentazione” figurativa in “presentazione” evocativa, il “dipinto” in “icona”, l’”artista” in “profeta” sui generis (ossia colui che dipingendo si fa portavoce e annunciatore visibile di un messaggio dell’invisibile Potenza trascendente, del “totalmente Altro”).

A questo più profondo livello di osservazione e interpretazione diventa allora possibile togliere l’angelo dall’anonimato e “battezzarlo” con il nome che sembra più appropriato fra i tanti attribuitigli dalla Tradizione religiosa: ossia quello appunto di “Angelo” (inteso non come nome comune ma come nome proprio). Che cosa annuncia dunque questo ritrovato e ribattezzato Angelo? Che cosa può annunciare Uno che non ha nessun potere, nessuna voce e addirittura nessun volto, e nessuno – a parte qualche bambino o qualche cane randagio – che lo veda o ne ascolti il silenzio? E’ proprio questo che egli annuncia: che, cioè, la sua totale mancanza di potere rende visibile l’incombente mancanza di senso, la pervasiva disumanità dell’odierno “vivere” umano. Ed egli testimonia pure che è la creazione artistica a restituirgli il potere primario di far vedere a chi osserva il dipinto ciò che non riesce a vedere osservando la realtà.

In virtù di questa “potenza iconica” del dipinto noi vediamo il vuoto interiore degli esseri freneticamente indaffarati e irresistibilmente attratti – come robotizzati manichini – dalle luccicanti immagini cui si appiccicano i loro sguardi come falene imbizzarrite; vediamo e capiamo che essi non badano al Diverso perché non se ne accorgono, dato che non luccica, non grida, neppur si muove. Questa di Angelo post-moderno non è dunque nemmeno, come quella di Giovanni Battista, una “vox clamantis in deserto”, in quel “popoloso deserto” che sono le frastornanti piazze e vie delle tentacolari metropoli perennemente intasate e soffocate da un traffico febbrile.

Sta proprio in questo eloquente silenzio, però, in questa visibile invisibilità, la nuova, inaudita Potenza che l’antico Arcangelo non aveva: la Potenza di far vedere, nei dipinti creati dall’Artista come autentiche icone, l’Impotenza dell’Umanità post-moderna prigioniera di un Vuoto sordo e cieco in cui si va da se stessa sempre più rinchiudendo. L’apparente insignificanza di Angelo non è dunque che l’immagine della nostra insignificanza.
Non è un’immagine del Divino, ma di un Umano decaduto: proprio per questo, però, un’icona “sacra”, perché ci può far prender coscienza del nostro stato e per ciò stesso aprire un varco di speranza verso una possibile “redenzione”. Solo vedendo riflessa nella sua la nostra impotenza possiamo infatti sperare di salvarci dall’Angelo della Morte che oggi ci sovrasta come un terribile Démone, già icasticamente descritto nell’angelologia delle leggende post-coraniche.

Esso è uno dei quattro Arcangeli ed è di proporzioni cosmiche poiché uno dei suoi piedi poggia su un seggio di luce nel settimo cielo mentre l’altro piede sta sul ponte fra Paradiso e Inferno. E’ alto settantamila piedi. Ha quattromila ali e quattro facce, e il suo corpo è completamente coperto di occhi e di lingue, tanti quanti sono i viventi. Alla creazione di Adamo riuscì a strappare alla Terra la manciata di argilla necessaria a Dio per la creazione. Per questa sua impresa, Dio gli diede l’incarico di Angelo della Morte – ben più terribile della stessa Morte -, perché aveva creato prima la Morte e aveva invitato gli angeli a guardarla, terrorizzati, per mille anni.

Se la visualizzazione di “Angelo” non avrà l’effetto salvifico sperato, questa potrebbe essere la successiva visualizzazione di un altro invisibile virus, letale per un Uomo senz’anima e senza futuro, privo anche della presenza dell’Angelo misericordioso che ancora ci soccorre nelle “icone post-moderne” di Giovanni Pulze, creatore della “potenza di Angelo”.